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contro il gruppo editoriale.
Quando sono tornato su ho ripreso il giro di telefonate. Le due erano il momento migliore per
trovare qualcuno a casa, e i postumi del pranzo tendevano a favorire le dichiarazioni migliori, o
almeno quelle più vaniloquenti e narcisiste e impudiche e adatte ai nostri pezzi. Componevo i
numeri e ascoltavo le segreterie telefoniche, alcune con frasi spiritose o musichette prima del bip,
lasciavo il mio messaggio e aspettavo che i personaggi della cultura e dello spettacolo mi
richiamassero cinque minuti più tardi. Intorpidito com'ero dovevo simulare sorpresa e contentezza
appena li sentivo, tirare fuori le mie domande di routine come se le avessi studiate apposta per
loro. Mi sentivo abbietto, pieno di fastidio fisico per i toni di voce che mi arrivavano all'orecchio,
nausea per le imbecillità sentenziose che dovevo registrare. Poi il telefono ha suonato, e ho detto
Pronto? nel mio modo falso e professionale, e dall'altra parte invece di uno dei personaggi da
intervistare c'era la voce di una segretaria.
Ha detto: «Resti in linea un attimino che il dottor Polidori le vuole parlare».
Ho spento il registratore, mi sono guardato intorno per vedere se qualche redattrice cretina mi
stava facendo uno scherzo da un'altra scrivania; ma tutti sembravano presi dal lavoro, ipnotizzati
davanti ai loro monitor azzurrini. E subito mi è arrivata la voce di Polidori: ha detto; «Come va,
Roberto?», cortese ma un po' impaziente, come se fossi stato io a chiamarlo.
Gli ho risposto: «Bene, grazie». Continuavo a controllare le altre scrivanie, anche se non
avevo più dubbi che fosse lui davvero.
Lui ha detto: «Senti, a che ora finisci di lavorare lì?»
C'erano altre voci dietro la sua, qualcuno che parlava in inglese concitato.
Gli ho risposto: «Alle cinque e mezza», cauto e teso come un cane vicino a una tagliola.
Polidori si è interrotto per parlare con qualcuno, poi mi ha detto: «Ti va di bere qualcosa insieme
alle sette?»
Non era una vera domanda: mi ha dato appena il tempo di chiedergli dove e ha messo giù.
Alle cinque e mezza sono uscito nel grande parcheggio davanti al palazzo di Prospettiva, ho
trovato due redattori di un'altra rivista che mi hanno dato una spinta alla macchina. Per fortuna è
partita quasi subito, e a scatti e sputacchiamenti mi sono infilato nel traffico che rifluiva verso la
città alla fine della giornata. Avevo tempo; ero contento di non poter arrivare in centro troppo alla
svelta. Mi chiedevo se Marco Polidori aveva già letto tutto il pacco di fotocopie che gli avevo
lasciato, o aveva appena scorso due o tre pagine. In ogni caso dubitavo moto che potesse aver
trovato qualche genere di affinità tra il mio modo di scrivere e il suo. Non c'era bisogno di avere
letto tutti i suoi libri per sapere quanto intelligenti e colti e complessi erano i disegni letterari a cui
si dedicava. Mi bastava il tono delle recensioni che accompagnavano ogni sua sortita: l'unanimità
compunta, gli aggettivi che ricorrevano, le formule interpretative messe a disposizione dei lettori
per le loro conversazioni migliori. Marco Polidori era una specie di istituzione nazionale più che
uno scrittore, per quanto apparentemente antistituzionale fosse il suo spirito; era uno dei pochi
nomi esportabili con orgoglio dal nostro paese. Forse ai tempi di Sassi di fiume aveva anche
scritto in modo nuovo rispetto ai suoi contemporanei, e lo aveva fatto con intensità e divertimento,
aveva rotto delle regole. Ma quello era un libro degli anni Sessanta, quando ancora i critici non
erano così automaticamente entusiasti di qualunque cosa lui scrivesse, e lui non trovava troppo
ingenuo o rozzo abbandonarsi a una storia e a dei personaggi senza filtri distanziatori e
strutturazioni geometriche altamente elaborate.
Per questo ero sempre più teso, man mano che la fila di macchine di cui facevo parte si
avvicinava al centro. Non mi piaceva l'idea di sottoporre a un monumento vivente di cinquant'anni
l'unica parte di me non ancora triturata dai meccanismi della vita, rimettermi al suo giudizio come [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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